PRIMO
Partiamo dal fondo. Partiamo dalle polemiche (sì, ci sono state anche le polemiche sennò non c’è gusto, vero?). Partiamo dal fatto che secondo molti la crew che doveva uscire vittoriosa dal Red Bull Culture Clash 2017 milanese era quella di Real Rockers, non Hellmuzik. Quanto ci sta un’affermazione del genere? Volendo ci sta anche. Non perché sia vera in assoluto, occhio, ma perché si possono trovare delle pezze d’appoggio ben precise: Real Rockers, grazie anche all’esperienza del navigatissimo Macro Marco (la prima edizione italiana del Red Bull Culture Clash 2014 l’ha vinta lui con la sua crew mica per caso, e in generale sui clash proprio è un drago), è la crew che forse meglio ha interpretato le “tecniche” della faccenda: ha sfidato tutti con la calma dei forti e con la rabbia dei bravi, ha creato dei dubplates da battaglia (e da paura), è quella che ha fatto suonare meglio l’impianto, soprattutto è quella che aveva i tempi migliori e lo stile più lineare, dritti all’obiettivo. Sì, hanno fatto un lavoro da manuale. Macro Marco, i due fuoriclasse totali del freestyle e del fomento Ensi e Moddi, lo stiloso Madkid. Ah, a proposito di fomento: come ospite speciale a un certo punto da loro è apparso il Danno (metà dei Colle Der Fomento, per chi non lo sapesse). Insomma: spettacolo vero, palco in fiamme, spirito e skills 100% da clash.
SECONDO
Però vi possiamo dire che il boato a favore di Hellmuzik nella sfida finale, nello spareggione vita-o-morte crew contro crew, è stato potentissimo. È stato il più potente. E questa è la cosa che conta. Le urla e le grida e la gioia erano lì. Che poi guai a dire che Hellmuzik abbia vinto usurpando il posto del vincitore: perché Salmo - che è stato bravo a non monopolizzare il proscenio ma ha valorizzato invece al massimo tutti i componenti della sua “squadra” - assieme ai suoi soci ha offerto sfida dopo sfida una performance sempre adrenalinica, a livelli enormi, legata anche a scelte non facili: il massiccio uso della drum’n’bass, una scelta meno scontata di quel che sembra. Qualcuno provi a dire che Hellmuzik ha offerto una prestazione scarsa o raccogliticcia. Ci provi. Se lo fa, vuol dire che non era in Barona, a Milano, lo scorso 9 giugno 2017.
TERZO
Che poi a dirla tutta nessuno ha fatto male il proprio lavoro, nessuno ha preso sottogamba la sfida. Possiamo dirlo per Milano Palm Beat: che sarà arrivata anche per ultima, che sarà stata anche un po’ caotica e sfilacciata nell’esibirsi, che avrà anche masterizzato in modo non perfetto le basi col risultato che era quella che suonava meno “potente” come impatto sonoro, però accidenti se c’è stato bisogno di loro. Hanno buttato dentro idee, follia, stranezze, derive camp, cattedrali kitsch, derive surreali. Sono stati un vero e proprio Carnevale di Rio iper-urbano e iper-contaminato, hanno messo in campo degli ospiti spiazzanti e non scontati (da un lato Marcelo Burlon, dall’altro Serocee, che in Italia conosciamo poco ma è colui che ha sbaragliato la concorrenza al Culture Clash londinese dell’anno scorso assieme a Popcaan e altri ceffi). Myss Keta può piacere o non piacere – con il suo sense of humour molto “milanese 2.0”, pregi e difetti annessi – e in effetti è stata usata molto come frontman. Forse in Milano Palm Beat gli ingredienti, tutti saporitissimi di loro e felicemente non scontati, potevano essere dosati meglio, i ruoli distribuiti in modi più equilibrati e più efficaci. C’è chi ha fatto troppo, chi ha fatto troppo poco, c’è chi faceva la cosa giusta nel modo giusto nel momento sbagliato. Peccati d’inesperienza. Però di sicuro è da parte loro che è arrivato quello che da nessun altra parte è arrivato, e che sarebbe stato un peccato fosse mancato: non solo l’adrenalina da clash, ma anche la follia da festa stralunata. E anche un po' di messaggi importanti per chi ha saputo ascoltare con attenzione.
QUARTO
Resta da parlare della quarta crew, Daytona. La potenza di fuoco era impressionante: in prima fila The Nigt Skinny direttore d’orchestra, Clementino mattatore, Rkomi fomentatore, Noyz Narcos con interventi pochi ma mirati e devastanti. Sono anche la crew che ha tirato fuori l’ospite più a sorpresa: Ilona Staller, in arte Cicciolina. Sì, lei. In Persona. A mandare bacini dal palco. Però è mancato qualcosa. L’hanno messa forse troppo sull’adrenalina, sulla rabbia stradaiola, mancava un po’ di componente beffarda e fantasista (Ilona a parte), che è un po’ la roba che fa la differenza in un contest di questo livello.
QUINTO
Il livello è stato altissimo. Ma proprio in generale, è stato uno spettacolo fantastico. In primis grazie al pubblico: tanti (evento sold out), rumorosissimi, iper-entusiasti, accaniti, sorridenti. Ma in secundis grazie agli artisti. Perché nessuno ha fatto il “compitino”. Si sono mescolate persone e storie: quest’anno, a differenza del 2014, le crew erano state costituite ex novo per la sfida, non erano pre-esistenti. Eppure il senso di squadra, di coesione, di fratellanza era palpabile, era incredibile. Su tutti e quattro i palchi. E lo vedevi che non era questione di soldi, lo vedevi che nessuno era lì giusto per farsi autopromozione, perché “fa prestigio” (o fa fatturato) fare cose come quelle. Chi c’era lo sa: sui quattro palchi disposti a semicerchio in quel posto lunare e “street” che è il piazzale davanti al Barrio’s in Barona per un attimo sono tornati tutti performer alle prime armi, senza rete, senza filtri, quando fai cioè le cose con una “cazzimma” incredibile esclusivamente per il gusto di farle, non perché ti stai centellinando le mosse per far carriera. È lì che il Culture Clash ha dimostrato di essere davvero un evento unico in Italia. Unico. Sincero. Vitale. Cattivissimo. E bellissimo.
