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Recensione del quinto: Jamiroquai, "Automaton"
Eravamo preoccupati, molto preoccupati: c'erano i segnali per un disastro e invece no
Di Damir ivic
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Jamiroquai e il loro "Automaton"
Il ritorno di Jay Kay e degli Jamiroquai© [unknown]
PRIMOLa verità è: eravamo terrorizzati.
SECONDOEravamo terrorizzati perché da sempre Jay Kay e i suoi Jamiroquai sono stati un nostro feticcio. Da prima ancora che diventassero pop e che facessero numeri da capogiro. Tipo che la primissima loro data la vedemmo praticamente seduti sul palco (Rocca Sforzesca di Imola, situazione così informale che fu lo stesso Jay a dire a noi delle prime file “Dai, salite, mettetevi pure qua a lato sul palco, dai che ci divertiamo”), tanto per far capire come l'amore non potesse non sbocciare. Poi chiaro: nel frattempo le cose sono cambiate, non erano più uscite semicarbonare sulla Acid Jazz di Eddie Piller ma contratti pluriennali e multimilionari con una major, video ovunque, airplay a tappeto, eccetera eccetera. Ma l’amore è rimasto. Anche se era perfettamente immerso nei meccanismi del pop (anche quelli peggiori: l’ostentazione di ricchezza, l’inavvicinabilità, eccetera eccetera) a Jay e alla sua creatura musicale abbiamo sempre voluto un bene dell’anima. Anche perché assestava sempre dei colpi funk-soul-steviewonderiani in grado di sciogliere anche i più riottosi.
TERZOLa verità è che il nostro amore era così forte che facevamo passare in secondo piano qualcosa che ad altri difficilmente avremmo perdonato così facilmente: nei dischi dei Jamiroquai i brani-capolavoro sono sempre stati di solito non più di tre o quattro, fin dagli esordi, il resto era non magari un riempitivo ma dei buoni esercizi di stile o poco più. Ecco: questa è la cosa che vorremmo dire a chi c’è rimasto male per “Automaton” dicendoci “I brani buoni saranno tre, massimo quattro, il resto oddio”: la verità è che è sempre stato così. Fin dai tempi di “The Return Of The Space Cowboy” (ma pure “Emergency On Planet Earth”, diciamocelo) proseguendo per gli album successivi.
QUARTOEravamo terrorizzati anche perché certe abitudini chiamiamole edonistiche di Jay ci erano ben chiare (ed erano state evidentissime negli incontri di persona), e sono abitudini che alla lunga logorano. Te ne tiri fuori magari perché qualche volta anche se te ne tiri fuori lasciano il segno: sei svuotato, imbolsito, creativamente prosciugato. Ogni tanto succede. Il silenzio così lungo – sette anni – dall’ultimo lavoro in studio non era un buon segno. Siamo onesti, il pensiero era: “Questo sta male, sì, va in tour, continua a fare concerti strepitosi, ma per tornare in studio e creare qualcosa di nuovo deve prima disintossicarsi”. Siamo contenti di leggere che la spiegazione di Jay per questo lungo silenzio sia invece la normalizzazione della sua vita privata, con tanto di paternità. Se fosse veramente così sarebbe la più sana e bella delle spiegazioni.
QUINTOPerò ecco, il terrore-panico-paura che questo tanto atteso ritorno fosse in realtà deludente era molto alto. Per qualcuno lo è stato anche fra i nostri amici estimatori hardcore dei Jamiroquai. Dissentiamo: “Automaton” è uno dei migliori dischi nella discografia della band (viene dietro forse solo ai primi due). Mancano i capolavori-capolavori (forse solo l’iniziale “Shake It On”), ma ha una qualità media molto alta. Qualche scivolata c’è (la discutibilissima “Superfresh” che nella scrittura strizza l’occhio all’EDM, l’inutile “Hot Property”), ma in linea di massima è un lavoro consistente, solido, impreziosito anche da un minimo di rinnovamento negli arrangiamenti (la tanto chiacchierata svolta electro coi synth vintage: in realtà non è così pervasiva e radicale, è giusto un elemento in più e ci sta bene). Fa un po’ pensare quanto in certi casi sia effettata e tagliata&cucita la voce di Jay su alcuni pezzi: anni di stravizi, sigarette e vita a duecento all’ora hanno molto “sporcato” la sua voce rispetto agli esordi, speriamo che sia ancora una cosa gestibile pure dal vivo e che tutti gli aiutini-da-studio sulla voce percepiti nella tracce di “Automaton” siano solo funzionali al disegno artistico complessivo, all’abito sonoro scelto molto cosmico anni ‘70. A ogni modo eravamo terrorizzati e invece quello che è venuto fuori è un album degnissimo. Nessuna rivoluzione: Jamiroquai sono sempre Jamiroquai, fedeli a loro stessi, il maquillage elettronico è giusto un filo di trucco che non cambia i lineamenti. Jay le canzoni le sa scrivere ancora, la band suona che è una meraviglia, la pasta sonora è piacevolmente vintage e non cede a inutili contemporaneismi. Il nostro amore è salvo. Il nostro amore è saldo.
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