È oggi difficile limitarsi a definire Luchè un rapper. Nonostante abbia scritto alcune delle pagine più importanti del genere in Italia, la sua figura è oggi talmente più ampia da renderlo diverso dalla maggior parte dei suoi colleghi. Produttore, imprenditore di successo, designer ed editore di un progetto media giovane e innovativo nella sua struttura, Luchè è quello che negli Stati Uniti definirebbero “bigger than music”. Anche per questo Red Bull Italia lo ha scelto come protagonista di Red Bull presents "Next”, e anche per questo ha deciso di incontrarlo per parlare con lui di rap e di attitudine, proprio mentre si trovava dall’altra parte del mondo, a Los Angeles, a lasciarsi ispirare dalla città, cogliendo l’occasione per entrare in studio con Hit-Boy - uno degli hitmaker più celebri d’America. Da Marianella a Hollywood e ritorno.
Il ruolo e le aspirazioni dei rapper sono cambiate molto dai tempi in cui eri un esordiente ad oggi. Che ricordi hai di allora?
Io ho cominciato in quella che era davvero un’altra epoca, probabilmente non c’era manco Youtube, o quasi, ed era ancora il periodo delle cassettine. Il nostro obiettivo (mio e di Nto, ndr) era quello di avere una recensione o un articolo su un giornale, in tutta onestà non avremmo mai neanche lontanamente pensato di poter avere quel successo ottenuto con i Co'Sang. Il rap, la cultura urban, era qualcosa di talmente lontano dallo stile della società italiana di allora che noi ci sentivamo “di nicchia”, quasi degli emarginati e questo ci portava a voler creare il nostro mondo. Oggi l'italia è come qualsiasi altro paese al mondo, e il rap ha invece preso il sopravvento. Una cosa che succede spesso qui però - e che magari da altre parti succede meno - è che gli artisti rap una volta fatto successo cercano subito di sfociare nel pop. Ciò non toglie che questa fase storica, per chi vuole fare questa roba, è ottima.
Nonostante rappresenti un pezzo di musica napoletana, hai sempre viaggiato molto, da Londra a New York, avendo l’opportunità di confrontarti con realtà molto diverse. Cosa - di tutti questi posti - ti ha ispirato di più?
Quando viaggio cerco sempre di andare nei posti dove so di trovare cose che mi interessano, e che mi possano arricchire. Se dovessi andare in vacanza in Australia probabilmente non ci andrei e preferire andare a New Orleans o Los Angeles, cioè andare nei posti in cui posso trovare la cultura street che mi attrae. Mi piacciono i posti dove nascono i nuovi trend, le nuove mode, dove c’è la musica e il tipo di musica che mi interessa. Quello che mi ha affascinato di Londra, e di New York allo stesso modo, è stata la scena urban, che ritrovi in tutto, anche nel modo di vivere delle persone. La cultura urban e lo streetsyle sono talmente tanto sviluppati in quei posti che definiscono lo stesso concetto di città urbana. Mi ispira visitare quei posti e i loro quartieri più artistici, dove c’è un’alta concentrazione di idee.
Negli ultimi anni il rap si è evoluto sempre più verso un'idea di musica “urban”, un contenitore più ampio che al suo interno ha meno catalogazione: quanto ha fatto bene al rap e all’hip hop questa apertura - che è più grande della sola musica?
È stato importante perché l’hip hop e il rap stanno diventando sempre più influenti, e oramai vanno a condizionare ogni cosa, musica country compresa. Negli anni ‘90 magari c’erano il grunge, il punk che andavano forte perché c’era uno stile di vita più “ribelle” e che quindi si avvicinava di più a quei generi. L’hip hop invece è sempre stato una gara a chi è più stiloso. Oggi tutti criticano quello che l’hip hop è diventato, ma quando qualcuno dice che l’hip hop è nato come un genere di protesta sta dicendo una cosa inesatta. L’hip hop nasce nei project del Bronx a uso e consumo dei block party, dove i ragazzi che partecipavano ci andavano in adidas Superstar, Kangoo, vestiti stilosi per andare a ballare nei block party. Così nasce l’hip hop, per fare festa. Poi sono arrivati il conscious e il gangsta rap. Ed oggi il genere mi sembra ritornato un po’ a quello che era allora. Poi riesci comunque a trovare di tutto, magari non ci saranno più Biggie e Tupac ma è possibile anche oggi trovare cose di quel genere. Per questo credo che l’allargarsi del rap alla cultura urban in generale, e quindi anche al mainstream, non sia per forza di cose una cattiva idea.
Poi certo, uno dei problemi di oggi è che spesso i media tendono a prendere in considerazione e a dare risalto a personaggi dallo scarso valore artistico - ma che magari hanno successo su Internet - togliendo spazio e attenzione a quelli che invece hanno un valore e potrebbero magari davvero diventare i nuovi leader. Ci si limita a fare l’articolo sul personaggio di turno che magari genera like e condivisioni, invece che ricercare il valore. È vero che artisti con le palle ce ne sono sempre meno, altri però, come Lamar, J Cole o Kanye restano sempre influenti; mentre i media sono rimasti un po’ schiavi di questa corsa ai like e al consenso. E il mondo fuori ha invece bisogno di nuovi leader capaci di lanciare messaggi positivi.
Quali sono state, crescendo, le tue influenze artistiche e culturali?
In Italia non ho mai avuto un punto di riferimento artistico, perché vedevo tutti i rapper italiani - che pure reputavo e reputo talentuosi - lontani da me. Mi piaceva qualcuno, c’erano pezzi che funzionavano ma non a tal punto da influenzarmi. Crescendo tra Marianella e Secondigliano, in quella situazione di degrado, con una realtà molto cruda, mi rivedevo nei rapper di New York che parlavano di periferia o di project. Mi rivedevo addirittura più in loro che nei rapper di Los Angeles, dove pure il gangsta rap è nato, perché a LA sono più festaioli e hanno un modo di vivere molto diverso, dettato anche dalle condizioni atmosferiche. Io invece, vivendo una situazione più cupa, scura e tetra mi rivedevo nei rapper di NY.
Hai un modo di approcciarti agli “affari” molto poco italiano. Perché credi sia importante, per un artista oggi, non essere monodimensionale?
Il mio modo di fare deriva sicuramente dal fatto che circa dai 18 anni in poi ho cominciato a vivere a Londra e ho avuto modo di approcciarmi a una mentalità più anglosassone. In italia da piccolo ti insegnano che devi fare una cosa e la devi fare bene perché se ne fai tante le fai male. Ecco, questa non è una cosa sempre vera, anzi. Nella società in cui viviamo c’è bisogno di diversificare le energie. Ovviamente non è una cosa per tutti, e sta alle persone capire i loro limiti. Però se il tuo istinto ti dice che quella cosa lì la sai fare, devi farla. Io quando ho scritto “Int’o Rion’” ero sicuro al 100% che avrebbe funzionato, ancora prima che uscisse già provavo la sensazione che avrei provato quando il pezzo sarebbe uscito e avevo già capito quale sarebbe stata la reazione della gente. Il mio ruolo di artista oggi è composto da tutte le cose cose che hai elencato, altrimenti ora non staremmo parlando di questo, ci saremmo limitati a parlare di musica e dell’album. Invece credo che il carisma di un artista si formi sviluppando tante idee.
Vorrei dunque lanciare questo messaggio: dobbiamo uscire dalla mentalità di dover fare solo una cosa, la propria cosa, e non fidarsi mai degli altri. Se uno non si fida non si costruisce niente. Se io voglio fare una catena di ristoranti devo fidarmi di chi me le gestisce, se devo avere una linea di abbigliamento devo fidarmi della fabbrica, se faccio Power mi devo fidare dei ragazzi che fanno Power. Devo fidarmi della crescita delle persone di cui mi circondo, altrimenti da qui a 10 anni non avrò costruito quello che voglio costruire.
Qual è, oggi, la dote più importante che un rapper, o un aspirante rapper, deve avere?
Negli ultimi anni - a causa del successo del genere - c’è stato un cambiamento radicale delle intenzioni dei giovani rapper: oggi i ragazzi si sentono al sicuro e si sentono forti se fanno tutti la stessa cosa, se si vestono tutti uguali e si comportano tutti alla stessa maniera. Adesso tanti si stanno rendendo conto che fare tutti la stessa cosa stanca e alla lunga non paga e quindi tanti artisti stanno cadendo o non riescono ad avere più il successo di prima. Per far sì che qualcuno ti noti devi fare la tua cosa, devi avere il tuo stile, la tua melodia, i tuoi argomenti, il tuo timbro. Devi essere diverso dagli altri. Ad esempio: oggi ci sono tantissimi ragazzi che rappano come Capo Plaza e come Sfera Ebbasta. Ma già esistono Capo Plaza e Sfera. Puoi fare la trap, ma falla a modo tuo, aggiugi qualcosa a quello che già esiste. Se tu ora vieni in studio da me e D-Ross per Next e mi porti un pezzo che suona tale e quale a qualcun altro, io cosa dovrei dirti? Ci sono persone come me, CoCo, Geolier, o anche Vale Lambo, Lele Blade, Marcello Valerio... siamo tutti unici. Nessuno cerca di fare quello che fa un altro. Geolier è nato con un timbro che riconosci appena apre bocca, si sta creando il suo stile, un po’ latin-trap un po’ gangsta, ma è riconoscibile, è suo. E così deve essere, così riesci ad emergere.
I tuoi ultimi lavori, sia da solista che nei featuring, si sono aperti verso un suono sempre più melodico. Come mai?
Perché quando accetti la melodia, la melodia ti dà quel plus, quella cosa in più, per rendere tutto quello che fai ancora più forte. È un processo che accetti piano piano, ti avvicini piano alla melodia, hai paura della melodia perché hai paura che ti possa snaturarti e renderti diverso. Come i soldi: si ha sempre paura che i soldi ti rendano diverso, e invece devi sfruttare i soldi. Se avessi un milione di euro qui non andrei a comprare una Ferrari ma li investirei in musica. Perché quello che conta è quello che ne fai tu dei soldi, i soldi sono un mezzo, come la melodia. La melodia è un mezzo e oggi non mi fa più paura: se hai quel dono lo devi sfruttare, perché è una chiave che ti apre mille porte, e le apre anche al rap.
Lo scopo di Next è per certi versi, molto simile a quello che fa BFM, una piattaforma per amplificare il successo di artisti e farne conoscere di nuovi. Perché hai sentito l’esigenza di creare BFM?
Siamo partita da Napoli ma non vogliamo fermarci qui, vogliamo diventare una realtà nazionale. Oggi lavoriamo tantissimo al Sud e non ci siamo ancora spostati per una questione logistica e perché mi sembrava giusto ripartire dal territorio e dare a Napoli una prima etichetta manageriale/discografica. Sono arrivato a un punto in cui, artisticamente, credo di aver fatto tanto per la città, ma la cosa che mi mancava da un punto di vista personale era unire una scena che storicamente è sempre stata divisa. Volevo unirla perché ho notato che in questo periodo storico c’era un fermento incredibile, artisti validi che potevano dire e fare qualcosa di importante.
E allora mi sono detto, perché non creare un movimento? Mi avrebbe permesso di cominciare ad acquisire il ruolo da produttore che vorrò avere anche in futuro, e utilizzare il mio potere per aiutare gli artisti che abbiamo scelto ad avere una carriera strutturata e duratura. È una situazione win-win, perché io gestisco un grosso valore e loro trovano esperienza, contatti, in un contesto dove tutti cresciamo. L’unione fa la forza. Credevo poi fosse anche una mia responsabilità dare questo contributo alla scena napoletana. L’obiettivo però è allargarsi anche fuori da Napoli così come fuori dal solo hip hop.
Qual è il tuo next?
Vengo da un disco che ha avuto un ottimo successo e a cui sono ancora legato e abituato. Ora sto sperimentando e cercando un sound che sia appunto il next level degli altri, è questa la mia scommessa. Dopo sette album non è facile, ma voglio farlo. Il mio “next”, il mio prossimo obiettivo è abbattere la barriera dei media: sento di avere un pubblico forte e affezionato però non l’appoggio dei media. Devo cercare di entrare nel mainstream facendo la mia roba. Il mio prossimo disco deve essere un disco di rottura, voglio un disco “artistico” che quando lo ascolti dici “capolavoro” e che per capirlo devi ascoltarlo 10 volte. Voglio fare un’opera d’arte.