Sfera Ebbasta
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Musica

Non ci resta che Sfera Ebbasta

Esce "Rockstar", il suo nuovo album, ed è subito boom: "dove andremo a finire"?
Di Damir Ivic
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Infilandomi nella metro di Milano, l’altro giorno, mi è capitata una visione abbastanza abbacinante. Abbacinante già dal punto di vista cromatico, con tutto questo sfondo giallo, con tutto questo rosa (della pelliccia). E poi tatuaggi, orologiazzi, apparati dentali rinforzati. Roba da trasformare Sun Ra, Boy George o i Parliament nei loro periodi più fiammeggianti e confusi in bigi commessi in completi lisi comprati alla Standa. Ecco, l’ultima frase di cui sopra immaginatevela pure pronunciata con l’autotune. Tanto ormai, con la liberazione stilisica/metrica operata dall’ondata trap, si può fare tutto. Si può davvero pronunciare l’elenco del telefono, senza che nessuno abbia troppo da ridire. Basta farlo bene, basta farlo a favore di autotune, allungando e cantilenando le vocali al momento giusto. Sì. Basta così. Il resto? È mancia. Se c’è, se hai voglia di lasciarla. Solo se hai voglia di lasciarla.
E prima di lamentarvi (lamentarci) sull’onda de “E il significato? Dove sta il significato?”, o “Il messaggio? Dove sta il messaggio?”, si farebbe meglio a ricordare che il rap nasce come un insieme di frasi quasi-nonsense nate per aizzare la folla, senza troppe pretese, senza troppa elaborazione, l’importante era che colpissero le emozioni della gente lì di fronte, radunata ai bloc parties del Bronx o di Harlem. No? Un “suono”, per certi versi. Ecco: la cantilena autotun(n)ata del trap, volendo riprendere questa tradizione. Anche perché, per chi oggi ha meno di trent’anni (ancora di più per chi ha meno di venti), è una specie di richiamo da muezzin, che invita immediatamente a rivolgersi verso quella soddisfazione libidinale, leggera e spensierata, che è ed è sempre stato il pop marcatamente generazionale. Senti la voce con l’autotune, e immediatamente ti senti “a casa”.
Un po’ come i fratelli maggiori più “intelligenti” (tra molte virgolette) e alternativi si sentivano “a casa” quando sentivano le bassline acide della 303 o i campionamenti ultravelocizzati di James Brown o l’amen break al triplo della velocità: questo nei primi anni ’90, quando l’avvento dell’acid house, dei rave e poi della drum’n’bass e della club culture vicina ai club e ai rave - e lontana dalle discoteche commerciali - erano la bandiera (contro)culturale per eccellenza. È lo stesso meccanismo mentale. Dove sta scritto che gli uni sono migliori degli altri? Sta scritto forse nel fatto che chi si occupava di (contro)cultura era interessato ad analisi di retaggio post-marxiano: tipo sovvertire esteticamente e mercantilmente il sistema delle major, delle multinazionali, del pop buono per tutti. O anche: la realtà, se la descrivi, va implicitamente condannata, superata, modificata, migliorata.
A Sfera Ebbasta, ma in generale a tutta questa ondata trap (da Ghali alla Dark Polo Gang, con tutto quello che ci sta in mezzo), tutto questo non interessa. È, più o meno, un incomprensibile oppure un inutile onanismo cognitivo. Una perdita di tempo. Molto meglio impiegarlo, il tempo, a non farsi questi polverosi viaggi post-marxiani, ma a descrivere invece il qui e ora, la propria vita, le proprie abitudini più o meno cattive, la propria idea di seduzione e del rimorchio. Cose vere. Cose reali. E meglio sognarsi vincenti. Anche perché in questo momento guarda caso molti di loro lo sono. Appunto, vai in metro a Milano e ti trovi una gigantesca pubblicità con Sfera. Che manco Megan Gale negli anni d’oro, con uno dei gestori di telefonia. Sai cosa me ne faccio insomma delle tue critiche post-marxiste se i numeri mi premiano, la gente mi segue, le aziende mi cercano, i fan mi adorano? Perché diavolo dovrei ascoltarle? Perché diavolo dovrei perdermici? Per farti un favore? E perché dovrei fartelo, un favore? Cosa hai fatto per meritartelo? Cosa mi hai dato per farmi sentire in debito?
Il mio compito, io vincente di questa ondata trap, è essere il più sincero possibile, il più immediato possibile: dico la prima cosa che mi passa in testa, mi vesto nel modo in cui più ho voglia di vestirmi (un tempo chi faceva hip hop lo riconoscevi da come era vestito: oggi?), infilo in rima e in metrica qualsiasi cosa, tanto poi col suono famigliare e seducente dell’autotune tutto s’aggiusta e nessuno ha niente da ridire. Anche nei testi: libero il desiderio. Dico quello che sono e/o quello che sogno: senza vergogna, senza filtri. Dico quello che mi passa per la testa: senza gerarchie, senza steccati, passando dalla sbruffonata fatta tanto per farsi due risate al richiamo serio e sentito, magari nella stessa frase, perché no.
Tanto tutto s’aggiusta. L’autotune tutto aggiusta. Le basi coi bassi cavernosi e qualche piccola ironia amara buttata lì di tanto in tanto tutto avvolgono e lasciano un’ombra scura: a dire che tutto questo consumismo, tutta questa sbruffonaggine, tutta questa sincerità stile “I say what I say, I don’t give shit” è comunque giocata in tempi difficili, in paesaggi e passaggi complessi in cui tutte le dolci certezze del sistema – trova un lavoro, fai una carriera, metti su famiglia, acquista una casa – si sono rivelate un inganno, un prodotto fuori catalogo. Perché a chi oggi ha vent’anni o trent’anni, quando mai queste cose accadranno? Ve lo diciamo noi quando accadranno: solo quando a farle realizzare saranno i genitori allungando soldi e lavori per via ereditaria (quindi non saranno mai “loro”), per tutti gli altri niet, tutto gli altri sono destinati a vivere di lavori precari, contratti temporanei, capacità di sfangarsela nei modi più creativi possibili. E se questa è la situazione, da che pulpito uno può fare la morale a Sfera e al suo “Supermarket”?
Lasciatelo almeno sognare. Lasciatelo almeno godersi il momento, ora che improvvisamente e anche per certi versi inaspettatamente gli va tutto bene, anzi, gli va così bene che lo sbattono in 3x9 sui muri d’Italia nelle zone di massimo passaggio. E pure molti suoi colleghi hanno trattamenti simili, o sono lì lì per avere trattamenti simili. Facendo più o meno come lui. Affidandosi all’autotune più o meno come lui. Cantando con feroce noncuranza dei fatti (o dei sogni) propri più o meno come lui. Per ora va bene così. Per ora.