È andato lungo, ha recuperato con una foga e una perizia formidabili, ha commesso un altro errore, è caduto, si è fratturato, si è fermato. Marc Márquez. Un fenomeno? Sì, ma di cosa? Di coraggio o di scelleratezza? Mica facile rispondere anche perché questo tema è un evergreen del motorismo, dell’estremo.
Le scuole di pensiero sono sostanzialmente due. Da una parte c’è chi dice: caro ragazzo, sei il più forte, hai un avversario in gamba, hai appena raddrizzato una domenica storta, beh, accontentati, capitalizza, ragiona. Prenditi un secondo, un terzo posto e vai avanti, dentro una stagione serratissima che rende ogni infortunio una perdita enorme. Il fronte opposto ostenta un visione più romantica ma altrettanto realistica: un campione va preso per quello che è, forte e aggressivo sempre, secondo una natura che lo spinge oltre e che comporta qualche rischio in più. Piloti così fermarli non puoi. Pagano, certo, ma ottengono proprio in relazione ad uno spirito indomito.
La storia delle corse è piena di casi che riaprono il dibattito. Anche di recente. Ogni discussione su Max Verstappen, in questi anni ha viaggiato tra questi poli opposti del pensiero. Aggressività, esuberanza per emergere, conquistare a forza, da abbinare ad una razionalità più utilitaristica, soprattutto se si tratta di vincere un campionato e non una singola gara. Ha imparato molto, in questo senso Lewis Hamilton, rinunciando ad un azzardo in funzione di un piazzamento quando vincere diventa impossibile. Proprio a Verstappen un atteggiamento del genere viene richiesto come segno di maturità acquisita.
Eppure, i piloti che più entusiasmano e che conquistano gli appassionati, di un calcolo non sanno che farsene. Tanto è vero che ancora oggi viaggia nel firmamento il mito Gilles Villeneuve, un pilota che non riuscì mai a trattenersi, a fare della tattica una filosofia, macché. Cuore e piede destro, il bello del gas. Con aggrappati alla sua tuta molti presentimenti, l’ipotesi di una fine tragica, puntualmente avvenuta.
Ogni volta che ripenso al record di Stirling Moss nella Mille Miglia del 1955, percorsa alla media spaventosa di 157,650 chilometri orari (per me la prestazione più impressionante della storia), immagino in una sequenza approssimativa la quantità di rischi che Stirling si prese guidando la sua Mercedes 300 SLR da Brescia a Roma e ritorno su quelle strade così malmesse, tortuose e farcite di pericoli. Gli andò bene, avrebbe potuto andare malissimo mille volte lungo quelle mille miglia. E comunque quel record e il coraggio per ottenerlo, contenevano sia una scelleratezza deliberata, sia il talento che su quella scelleratezza era sintonizzato.
In realtà non esistono due modi di approcciare il mestiere di pilota, la velocità. E sono le imprese più estreme, da Nuvolari a Márquez, a conquistarci. A dare forza alla storia, all’immaginazione, alla meraviglia di fronte a uomini che compiono gesti lontanissimi dai nostri. Certo, talvolta servirebbe, sarebbe servito un pensiero in più, una accortezza, un colpo di freno. Ma se fosse la prudenza a dominare il campo non staremmo qui ad accompagnare i nostri eroi a motore. Che sono, comunque la si pensi, i fratelli, i figli, i nipoti di chi, come loro, ha gareggiato, ha vinto, ha perso una gara a costo di perdere la vita. Pur di farci tremare un nervo, pur di sfidare se stessi dentro un vento che a loro soltanto appartiene.